Recensione – Ricordi di un vicolo cieco di Banana Yoshimoto

Ricordi di un vicolo cieco è una raccolta di racconti – non molti, 5 in tutto – che, a detta dell’autrice, hanno in comune l’esperienza del dolore. Interessante è il suo commento in postfazione:

Come Burroughs, che a proposito del suo romanzo Checca si chiese: “Perché dovevo fare una cronaca così precisa di quei ricordi estremamente dolorosi, spiacevoli, laceranti?” mentre scrivevo questa raccolta di racconti non potevo fare a meno di pensare: “Perché sto scrivendo di cose tristi, quelle che mi costano più fatica?”. Sono tutte storie d’amore tristi e dolorose. Provando ad analizzarmi dall’esterno, si direbbe quasi che abbia tentato, quando il parto stava per avvicinarsi, di liquidare in fretta tutti i ricordi dolorosi del passato. Per questo, anche se niente di quanto ho scritto mi è accaduto in prima persona, stranamente è il libro più autobiografico tra quelli che ho pubblicato finora. Nel rileggerlo riaffiorano in me vividi i momenti più difficili della mia vita. Proprio per questa ragione è diventato per me un libro importante. […] Forse anche i lettori di questo libro avranno pensato “Perché spendere dei soldi per leggere racconti così tristi?” ma poiché penso che questo struggimento (ammesso che, essendo in sintonia con me, lo abbiate provato) sia qualcosa di necessario, vi prego di perdonarmi. Stupidamente nel rileggere le bozze non potevo fare a meno di piangere, ma ho la sensazione che quelle lacrime abbiano fatto un po’ sparire il dolore che avevo dentro. Mi auguro che possa accadere lo stesso anche a voi. Forse vi sembrerò ancora più sciocca, ma il racconto Ricordi di un vicolo cieco, che dà il titolo a questa raccolta, è, fra quanto ho scritto finora, quello che amo di più. Solo per aver potuto scrivere questo racconto, ringrazio di essere diventata scrittrice.

Stranamente, non ho avvertito grande dolore in questi racconti, anzi. È vero che la premessa è “negativa” (ma di questo possiamo anche parlarne), ma la risoluzione è sempre positiva (e prevedibile). Tranne in un caso specifico, che casualmente è nel racconto migliore. Tutto è raccontato in maniera molto generica, distaccata; le protagoniste mi sembrano tutte uguali. Non mancano i pipponi filosofici, che sono tipici della produzione della Yoshimoto; tuttavia, li trovo più efficaci nei romanzi rispetto ai suoi racconti. Quando si limita a descrivere le situazioni o i dialoghi non ho avuto problemi: la difficoltà è stata nei pensieri infiniti delle protagoniste, elucubrazioni mentali tra il noioso e il wtf. Alcune considerazioni le ho trovate interessanti, altre un po’ fuori luogo.

La famiglia, il lavoro, gli amici, il fidanzato erano come una ragnatela messa per proteggermi da quei colori spaventosi che dormivano in me. Con tante reti così si può anche non cadere mai, e nel migliore dei casi passare tutta la vita senza neanche accorgersi di cosa c’è laggiù in basso. Non è questo ciò che tutti i genitori sperano per i propri figli, che non si accorgano della profondità di quell’abisso? Forse per questo i miei genitori, in questa circostanza, hanno dato alla questione più importanza di quanta ne abbia data io. Si preoccupavano di evitare che io potessi precipitare in modo drammatico. È così che gli esseri umani, mettendo insieme le forze di tanti, hanno creato un sistema per poter continuare a vivere civilmente, senza ammazzarsi gli uni con gli altri… quando la mia idea raggiunse queste dimensioni, non so perché ma mi sembrò di vedere tante cose in modo diverso. Persone come quelle che vivono agli angoli delle strade in India, imbrattate di escrementi di cani, o quelle fuggite di notte per l’impossibilità di pagare i troppi debiti contratti con le società finanziarie, e storie di famiglie distrutte a causa dell’alcolismo, di ragazze madri che irritate maltrattano i bambini, di donne che uccidono le suocere con cui non vanno d’accordo…. capii che non potevo più considerare tutta questa realtà soltanto come qualcosa di opprimente, sgradevole e sinistro. Nella mia stanza sopra il locale, come una ragazzina immatura, pensavo intensamente: Questa volta forse mi è andata bene. Le cose che sente una come me sono forse come quelle che si possono intravedere guardando dall’alto attraverso un buchetto in una soffice nuvola senza neanche capire se quello che vedo è in basso o no, e tuttavia ciò che conta è che io abbia deciso di vederle.

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Non mi è chiaro come si è passati dal pensare alla famiglia al problema dei senzatetto indiani.

Noto anche una certa somiglianza tra i racconti stessi: Doraemon e Nobita sono citati in due racconti diversi; la “lentezza” della protagonista viene sottolineata allo stesso modo in racconti differenti. Non ho avvertito una reale differenza tra le varie voci narranti, sembravano tutte la stessa persona in modo indistinto. Gli altri personaggi si distinguono già meglio. Veloce panoramica dei racconti stessi.

La casa dei fantasmi

Non capisco proprio la componente triste di questo racconto. C’è una componente un po’ magica, questo sì, ma viene dipinta con tenerezza e non con angoscia: a casa di Iwakura sono presenti i fantasmi di due vecchietti che sono morti in casa. La storia tra Setchan e Iwakura inizia in modo tranquillo, come un’amicizia, che in seguito si trasforma in qualcosa di più. I due però si separano per 8 anni perché lui va all’estero: quando torna e si rivedono una sola volta, ecco cosa succede…

[…] una settimana dopo ricevetti una telefonata da Iwakura. “Se sei ancora single, sposiamoci.” Siccome anch’io avevo lo stesso pensiero nel cuore, risposi subito: “Va bene”. Quindi aggiunsi: “Per caso sono libera, e qui c’è questo buco…”. All’altro capo del telefono Iwakura scoppiò in una gran risata. Stabilito solo che ognuno dei due avrebbe continuato col proprio lavoro, cominciammo subito a prepararci al matrimonio.

Forse vi chiederete il riferimento al buco. Poiché è una conversazione troppo assurda, va la riporto con piacere:

“E poi, voi ragazze, quando siete in una stanza con un uomo, sapete misurare l’atmosfera con il corpo, no?”
“Be’, penso che questo lo sappiano fare tutti.”
“Sì, ma l’uomo non vede che il buco. Una ragazza può essere ben truccata, ben vestita, e si può fare la conversazione più normale, ma uno pensa: Lì in fondo c’è quel buco, e non riesce a pensare e a vedere che quel buco umido e provocante. Basta che ci pensi solo per un attimo, e poi non riesci a pensare più ad altro.”
“Eeeh?”
“Infatti anch’io è già da un bel po’ che non riesco a pensare che a quel buco. Ogni volta che tu, Setchan, ridi o dici qualcosa, io penso: Però lì c’è quel buco.”
“A sentirmi dire questo non so se gioire o rattristarmi.”
“E se penso che c’è, non posso assolutamente smettere di pensare che vorrei farlo, ma so anche che presto me ne andrò dal Giappone, e non vorrei essere triste dopo.”
“Hai ragione, poi ci si sente tristi, è vero. Per quanto sul momento uno possa essere travolto dal desiderio. Io sono sicura che se lo faccio poi mi innamoro.”
“Anch’io sono così. Se lo faccio, poi l’altra persona mi piace sempre di più.”
“Però, che momento, neanche a volerlo scegliere…”
“Infatti.”
“Allora tracciamo una linea e cerchiamo solo di stare bene adesso” dissi io.
“Non è una situazione in cui si possa pensare al futuro. Però adesso io sono libera e come dici tu qui ho questo buco…”
“Allora va bene?”
“Non chiedermi il permesso. Non devi dare tutta la colpa a me.” È la prima volta che mi capita una persona che ha un modo così strano di convincere. È un tipo interessante, questo Iwakura, pensai con ammirazione.

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Mi viene difficile pensare a una donna che pensa con ammirazione a un uomo che parla di buchi al primo appuntamento.

Mammaa!

Matsuoka è una ragazza che conduce una vita ordinaria, lavora in una redazione ed è fidanzata con Yūchan. La sua vita viene sconvolta da un episodio di avvelenamento in mensa da parte di un collega; il racconto ruota attorno a questa esperienza e alle sue conseguenze. Più che triste, il racconto è pesante e lento da digerire. Una caratteristica che Matsuoka condivide con le altre protagoniste sono le inferenze tra l’ingenuo e l’assurdo:

“La mia eccessiva prudenza, la rigidità, l’incapacità di capire me stessa, la paura incontrollabile della felicità… e se tutto ciò fosse dovuto al fatto che i miei ricordi sono così confusi? pensai.”

La luce che c’è dentro le persone

Il racconto di gran lunga migliore, il più duro e quello che non ha un “lieto fine” o un contentino per il lettore. Non ha una storia d’amore al centro, ma è il ricordo di una donna adulta che ripercorre un momento felice e triste della sua vita da bambina. Ma prima di parlarne, voglio condividere un suo pensiero molto interessante:

Il mondo in cui vivevo normalmente era colorato di rosa, spazioso, profondo, arioso, ricco di cose che si espandevano e si stringevano con energia vertiginosa. A contatto con gli altri, questo spazio si faceva più stretto, ma siccome potevo subito ritornare nel mio mondo, non mi pesava.

Ogni tanto emerge decontestualizzato qualche pensiero o riflessione condivisibile, ma è da ricercare col lanternino.

La protagonista da bambina aveva un amico, Makoto, frutto di una relazione extraconiugale ma accolto come uno di famiglia. Non vi racconto come vanno le cose, ma condivido giusto un breve dialogo tra i due bimbi:

“Le luci, quando ci sono delle persone che vivono, danno una sensazione di calore, no?” Makoto meditò per un po’, quindi disse: “No, secondo me è la luce che c’è dentro le persone nelle case che dà una sensazione di allegria e di calore perché si riflette fuori. Infatti spesso ci si sente tristi anche quando le luci sono accese”. “Le persone hanno una luce?” “La presenza umana manda luce, sicuramente. Perciò uno la guarda con desiderio, e gli viene voglia di tornare a casa.” Infatti, a pensarci, nei modelli di case da esposizione, anche se ci sono tutte le luci accese, non si sente niente, mi convinsi facilmente. Poi, per scacciare la noia, toccai l’elastico del calzino di Makoto. Aver potuto stare insieme a Makoto in questa vita, proprio io e nessun altro, in quei brevi momenti d’ozio, di noia, di eternità, che sono stati per lui i più felici, è per me ancora oggi un privilegio straordinario.

La felicità di Tomo-chan

Un racconto bizzarro, anche qui narrato con un distacco incredibile. Tomo-chan si innamora di un tizio che vede ogni giorno a mensa, anche se in due anni neanche si parlano. Il momento più memorabile per me è stata questa riflessione:

Misawa annuì. Tomo-chan non si sapeva spiegare quella sensazione di innamoramento: di lui le piaceva tutto, perfino i peli sulle dita, perfino le unghie troppo lunghe.

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Ricordi di un vicolo cieco

Questo racconto non brilla particolarmente, ma non è neanche male. La protagonista si lascia col fidanzato storico e si prende una vacanza andando a vivere presso un locale dello zio, dove lavora un ragazzo, Nishiyama. Non mancano alcune riflessioni un po’, come dire, ingenue?

È difficile da spiegare, ma avevo la sensazione che, poiché aveva sperimentato da bambino una dose di sofferenze e traumi sufficiente per una vita intera, Dio lo avesse amato e gli avesse condonato tutto il resto dicendogli: D’ora in poi, sii felice. Bastava che Nishiyama fosse presente per sentire la stanza diventare più calda e riempirsi di amore. Perciò capivo che ci sarebbero sempre state persone che pensavano: Se potessi avere Nishiyama sempre accanto, sempre vicino, mi porterebbe sicuramente fortuna! Mi libererebbe dalle angosce della vita. Perché dopo aver parlato con lui, anche delle cose più insignificanti, il senso di solitudine spariva.

Conclusioni

Ricordi di un vicolo cieco è una raccolta che avrei potuto evitare tranquillamente. Ormai mi sto abituando all’idea che nella produzione della Yoshimoto ci sono storie molto simili tra loro, per cui a un certo punto ti sembra di non leggere più niente di nuovo.

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