Recensione – Il detective Kindaichi di Yokomizo Seishi

Ho deciso di leggere Il detective Kindaichi perché attirato dalla sinossi, che vi incollo qui sotto:

Un enigma della camera chiusa. Doppio omicidio nella dépendance della grande magione degli Ichiyanagi, ricchi e influenti possidenti. Il primogenito Kenzō, assieme alla giovane moglie, è ritrovato sgozzato, immersi i due corpi in un lago di sangue, nello stesso giorno delle nozze. L’ambiente dove è avvenuto il delitto è ermeticamente chiuso dall’interno, e l’arma del delitto, una spada tradizionale giapponese, giace a terra fuori dalla porta. Un brivido di terrore in più, che raggela gli abitanti della dimora, viene dal suono inspiegabile, nelle tardissime ore della notte, di un antico strumento a corde, il koto (il narratore della vicenda si riferisce ad essa come al «caso del koto stregato»). E nei dintorni si aggira uno strano personaggio, il viso sfregiato e solo tre dita nella mano, le cui impronte si trovano dappertutto.

Descritto così, sembrerebbe un libro super intrigante e torbido. In realtà, leggere Il detective Kindaichi è stato un po’ faticoso, soprattutto nella prima parte: si sente parecchio il peso dell’età. Vi racconto gli aspetti che mi hanno colpito (sia in positivo, sia in negativo).

Scheda del libro

Titolo  Il detective Kindaichi
Autore Yokomizo Seishi
Data 1946
Pubblicazione italiana 2019
Editore Sellerio
Traduttore Francesco Vitucci
Titolo originale
本陣殺人事件
Pagine 208
Reperibilità Reperibile in cartaceo e in ebook

Contesto storico

Siete interessati al contesto socio-culturale del Giappone anni ’30? Se sì, Il detective Kindaichi vi offrirà un interessante spaccato di quel periodo, ad esempio sulla questione del lignaggio:

La promessa sposa si chiamava Kubo Katsuko e insegnava presso una scuola femminile nella città di Okayama. Il motivo per cui gli Ichiyanagi si erano opposti al suo matrimonio con Kenzō non aveva a che fare con la donna, quanto piuttosto con il rango della sua famiglia. Può essere forse utile riflettere sul concetto ormai obsoleto di lignaggio. Poiché se è vero che esso è ormai estinto in città, è invece più che mai vivo nelle periferie del nostro paese. E governa le cose del mondo. Sebbene sia innegabile che queste vecchie convinzioni crollino con immenso fragore nella nostra società contemporanea, e che nella confusione che è seguita alla sconfitta del Giappone in guerra nessun contadino sarebbe oggi più capace di prostrarsi come in passato di fronte alla posizione sociale o alla ricchezza, bisogna ammettere che l’attaccamento al lignaggio fatica ancora a morire. Ciò è dovuto innanzitutto al fatto che la brama, l’adorazione e l’orgoglio ancora oggi riescono a tenere sotto scacco la gente di paese. Ma ciò che questi rustici considerano un buon lignaggio nulla ha a che vedere con l’eugenica o la genetica. Nell’antico sistema shogunale giapponese, il lignaggio si misurava con la buona amministrazione dei villaggi. E anche quando si fossero manifestati casi di disabilità, di epilessia o di malattie mentali all’interno dei nuclei familiari di chi era preposto a governare, ciò non comprometteva affatto il prestigio garantito dal lignaggio. Inutile soffermarsi, quindi, sull’importanza che una casata di lunga tradizione come quella degli Ichiyanagi aveva assegnato a questo concetto. D’altronde, se ancora oggi esso è capace di esercitare una così profonda influenza sull’animo della gente, è altrettanto facile immaginare quanto dominasse quella famiglia che negli anni Quaranta del Novecento continuava a vivere nella stessa residenza ereditata dai propri avi.

Fin da subito potete notare lo stile didascalico dell’autore, una componente che di certo non aiuta la fluidità della narrazione.

Pettegolezzi e donne

Vengono spesso riportati i discorsi dei contadini, che mostrano chiaramente la mentalità relativa alle donne:

«Quanti anni avrà adesso il signor Ichiyanagi? Una quarantina?».
«Quaranta esatti. Ed è al suo primo fidanzamento!».
«Innamorarsi a quell’età… Ichiyanagi è più intraprendente di un ragazzino».
«Direi di sì. La figlia di Rin dice che la sposa ha venticinque, al massimo ventisei anni. Un bel colpo di fortuna. Lo avrà fatto di certo per denaro! Ma almeno è bella?».
«Non particolarmente, a quanto pare. Però essendo un’insegnante deve essere dotata di un certo fascino. Sarà per quello che Ichiyanagi ha capitolato. Beh, di questi tempi, le donne devono essere istruite».
«Stando così le cose, allora se anche lei andasse a scuola potrebbe accaparrarsi un bel riccone, non le pare?».
«Direi proprio di sì!».

Insomma, un classico accostamento del tipo “non è bella ma è colta”. La questione della bellezza sembra essere il punto cardine dell’essere donna anche in Giappone!

L’omicidio

Lo dico senza mezza termini: a mio avviso la componente “gialla” è quella più debole e improbabile: la soluzione ideata dallo scrittore non è per niente credibile purtroppo.

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Un complicato sistema di corde permette a una spada di uscire dalla casa e cadere fuori: sono coinvolti un mulino, uno strumento musicale, un falcetto conficcato nell’albero… insomma, tanti elementi tutti insieme che in concerto renderebbero il tutto difficile da scoprire. In più, ci sono cose del tutto bizzarre come un uomo con tre dita che potrebbe essere collegato all’omicidio ma in realtà è solo un poveraccio che passa di lì e muore per caso di stenti… pertanto, per quanto sia evidente che ci sia un grosso lavoro di ragionamento dietro, lascia la sensazione di WTF.

Aspetti psicologici

Nonostante l’aspetto mystery sia un po’ assurdo, ho trovato davvero interessanti le componenti psicologiche dei personaggi coinvolti. Ovviamente non posso parlarne in maniera diretta per non fare spoiler, per cui metterò questo aspetto nell’apposito menù a comparsa!

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Particolare attenzione viene data alla personalità di Kenzo: molto ossessivo, puntuale, rigoroso, attento ai minimi dettagli: un uomo che scrive diari personali da anni, che tiene molto in considerazione i valori della famiglia e della purezza… sono questi aspetti così finemente indagati che aggiungono quel quid in più a Il detective Kindaichi! Peccato che emergano solo verso la fine del libro…

Stile

Purtroppo Yokomizo Seishi utilizza uno stile molto didascalico, dandoci informazioni a volte superflue ed intromettendosi nella narrazione.

Nonostante tra la residenza degli Ichiyanagi a Okamura e quella di Ginzō ci fosse una distanza di poco inferiore ai quaranta chilometri, le due località erano mal collegate tra loro. Si doveva innanzitutto utilizzare la linea ferroviaria Tamajima per poi cambiare sulla linea San’yō. Da lì a Kurashiki si saliva sulla linea Hakubi e si scendeva alla stazione di Kiyo. Una volta giunti alla stazione, però, si tornava indietro di circa quattro chilometri. Anche Ginzō e la nipote avevano percorso quel tragitto e lo stesso fece Kōsuke.

Ok, tutto molto interessante, ma ad un lettore non giapponese queste informazioni che cosa aggiungono? Quantomeno in Tokyo Express la lunga sequela di nomi e stazioni era funzionale alla trama, qui si tratta solo di liste di nomi irrilevanti per la storia…

All’epoca del delitto, nella residenza degli Ichiyanagi abitava ancora la vedova dell’anziano padrone: la signora Itoko. Nonostante i suoi cinquantasette anni, la donna soleva raccogliere i capelli in un vistoso chignon che sembrava ammantare la sua figura di un certo alone di dignità e di fierezza. In quanto discendente diretta della casata non dismetteva in nessuna occasione quel suo atteggiamento severo. Ecco perché tutti in paese la consideravano l’effettiva capofamiglia. Itoko aveva cinque figli, tre dei quali vivevano insieme a lei all’epoca dei fatti. Il primogenito si chiamava Kenzō. Si era laureato in filosofia in un’università privata di Kyoto dove aveva lavorato per qualche anno come docente. In seguito, a causa di una malattia respiratoria, tornò a vivere con la madre, ma non smise mai di studiare e di condurre le proprie ricerche. Si dedicò alla scrittura e occasionalmente pubblicò qualche editoriale in diversi quotidiani che gli fecero guadagnare una rispettabile reputazione come studioso. Il fatto di aver raggiunto la quarantina senza essersi sposato non era dovuto alle sue condizioni di salute, quanto piuttosto ai suoi impegni di ricerca che non gli avevano concesso il tempo di pensare al matrimonio. Dopo Kenzō, nacque la sorella Taeko, che lavorava come dipendente in un’azienda e, poiché si trovava a Shanghai il giorno del delitto, non poteva essere considerata in alcun modo coinvolta. Il terzogenito, Takaji faceva il medico a Osaka. La notte in cui avvenne il crimine non era presente in casa, ma, dal momento che fece ritorno immediatamente dopo gli eventi, non può essere ritenuto del tutto estraneo alla vicenda. All’epoca aveva trentacinque anni. Dopo la nascita di Takaji, Itoko non riuscì ad avere figli per un lungo periodo. Eppure, quando si era ormai pressoché arresa, dopo dieci anni diede alla luce un maschio e – a distanza di altri otto anni – una bambina. Nacquero così Saburō e Suzuko. Quando scoppiò il caso, i due avevano rispettivamente venticinque e diciassette anni. In confronto ai suoi fratelli maggiori, Saburō era un vero e proprio disastro. Espulso sia dalla scuola media che da una scuola professionale di Kobe, ai tempi del delitto era disoccupato e trascorreva le giornate girando sfaccendato per la casa. Eppure, nonostante la sua incostanza, non lo si poteva definire affatto uno sciocco. La sua natura lasciava trapelare una certa ambiguità di fondo; per questo, forse, in paese lo disprezzavano tutti. La povera Suzuko, invece, nata quando ormai i genitori erano in età avanzata, al pari di un fiore che sboccia senza abbeverarsi dei raggi solari, era cresciuta gracile e malata. Soffriva di un importante ritardo mentale, ma non la si poteva considerare menomata a tutti gli effetti. In certi ambiti, come per esempio nell’esibizione con il koto, mostrava un particolare talento. Nonostante fosse spesso capace di geniali intuizioni, le sue capacità cognitive erano paragonabili a quelle di una bambina di sette, al massimo, otto anni. Oltre ai membri principali della famiglia Ichiyanagi, all’interno della residenza vivevano altri parenti. Tra questi il cugino di Kenzō, Ryōsuke – che all’epoca dei fatti aveva trent’anni – insieme a sua moglie Akiko. Ryōsuke era molto diverso dal cugino. Nonostante fosse particolarmente versato nella matematica, finite le scuole non aveva proseguito gli studi. Era quello che oggi si definirebbe un uomo di mondo. Ecco perché tutti lo consideravano l’effettivo amministratore di casa Ichiyanagi. E in effetti Itoko, non potendo contare sul suo testardo primogenito, sul figlio medico, né sullo scapestrato Saburō, lo teneva in alta considerazione coinvolgendolo in tutte le decisioni più importanti. Quanto alla moglie Akiko, era ritenuta una donna semplice e inoffensiva. Una presenza pressoché superflua.

Come potete vedere da questo wall of text, l’autore ci presenta tutti i personaggi come un listone, oltretutto inserendo personaggi neanche importanti per la trama…

Conclusioni

Il Il detective Kindaichi è stata una lettura carina, ma niente di più. Si sente che è invecchiato male, le vicende sono descritte in modo confusionario e la soluzione al mistero l’ho avvertita come improbabile. Qualche elemento interessante c’è, soprattutto l’indagine degli aspetti psicologici e l’ambientazione giapponese; ma per me finisce là. Peccato!

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